Vittorio De Seta. Antonio Grambone, AIC, IMAGO ricorda Lettere dal Sahara

Vittorio De Seta [Palermo, 15 ottobre 1923 – Sellia Marina, 28 novembre 2011] è stato un regista e sceneggiatore italiano, ed è considerato il padre del cinema documentario italiano. Nel 1961 debutta al cinema con Banditi a Orgosolo, mentre Lettere dal Sahara [2006], è stato il suo ultimo lungometraggio, illuminato da Antonio Grambone.

Trama: Assane, un senegalese naufrago sull’isola di Lampedusa, in sei mesi risale l’Italia passando per Napoli, Firenze e Torino, cambiando di volta in volta lavoro. Quando finalmente riesce a ottenere il permesso di soggiorno, viene quasi linciato in una rissa fuori da una discoteca ed entra in crisi. Decide allora di tornare in Senegal e, una volta tornato al villaggio natale, di fronte alle insistenze del suo vecchio maestro, racconta la sua esperienza.

 

 

 

Hai illuminato l’ultimo lungometraggio di De Seta, Lettere dal Sahara. Come vi siete conosciuti? Come sei stato coinvolto nel progetto?

Un giorno, mentre camminavo, mi arriva un messaggio con la dicitura “vuoi fare un film di un grande maestro?”, la mia risposta fu la seguente: “e me lo chiedi pure?”. Era la sua aiuto regista, con cui avevo già lavorato, che preparò e girò la parte italiana del film. Dopo qualche giorno, incontrai Vittorio in un albergo a Roma.

Il film è stato girato in digitale, per De Seta era la prima volta: cosa puoi dirmi in merito agli aspetti tecnici e al tuo reparto? Come ti preparasti alle riprese?

Come ti dicevo incontrai De Seta qualche giorno dopo, un pomeriggio a Roma. Era entusiasta di girare in digitale, ne vedeva il futuro, parliamo del 2002, io ero un po’ più critico in quanto allora la tecnologia stava ancora arrivando; vide la Cinealta Sony, ma la scartò, perché troppo ingombrante. Gli proposi di girare in S16mm con delle macchine Aaton, mi appuntò che avevo poco coraggio e per legittimarmi avevo bisogno dell’elefante. Individuammo due macchine piccole e una sera andammo al Gianicolo a fare dei test, scegliemmo la pd150 Sony che ci risultò migliore con base luci corredandola con due lenti addizionali, una wilde e una tele. Voleva, come sempre aveva fatto, una piccola troupe per poter girare tra la gente, inserire i protagonisti della vita reale, quindi due macchine pd 150, un operatore, due assistenti, due elettricisti. Oltre a un piccolo parco luci, costruimmo degli zaini a batteria con delle aste con delle luci a neon, gli elettricisti sembravano dei ghostbusters, ma funzionò e riuscivamo ad illuminare, essere veloci e discreti.

In che periodo avete girato? Il film uscì nel 2006, ma se non erro venne realizzato qualche anno prima…ed è ambientato in Italia e in Africa, come si è svolta la scelta? Ci furono dei sopralluoghi?

Il film parte da Lampedusa e risale l’Italia passando per Agrigento, Villa Literno, Prato, Firenze, Torino per poi fare ritorno a Dakar per riprende il viaggio verso la parte sud del Senegal Casamance. Vittorio era stato in Senegal qualche tempo prima anche per raccogliere materiale per la sceneggiatura che adattava continuamente a quello che incontrava; io ho avuto materiali fotografici e appunti filmati del Senegal. Per la parte italiana facemmo molti sopralluoghi. Il film è stato girato dalla fine di novembre 2002 al luglio 2003 con un paio di pause anche di un mese durante le quali Vittorio riscriveva e riadattava la sceneggiatura e si preparavano le riprese a venire, inoltre, il film venne girato in sequenza come il viaggio del protagonista, partendo da Lampedusa e risalendo l’Italia per arrivare sino in Senegal.

Come si trovò De Seta a girare in un formato diverso dalla pellicola? 

Come dicevo ne era entusiasta, intravvedeva la libertà che forse aveva sempre cercato, la possibilità di non fare conti con la disponibilità della pellicola e della sua durata, la possibilità di avere il montaggio a seguito, poter visionare il materiale e premontare. Sul set con i piccoli monitor fu abbastanza complicato per lui, ma dopo una naturale piccola diffidenza si affidò completamente. La post-produzione dopo il montaggio proseguì prima con una color correction digitale del film e poi fu trascritto su pellicola dove ci fu una seconda color analogica. Vittorio fu molto contento del risultato finale dicendomi che il film aveva preso il look che lui aveva immaginato.

De Seta sulla realizzazione del film: «Io non li capivo, non conosco la loro lingua, sapevo il senso di ciò che avevo scritto, ma non potevo controllarlo. Mi sono fidato dei miei attori. Loro attirano a sé quelle parole, le fanno loro. Sono concetti che conoscono meglio di me, che sanno come dirlo meglio di quanto io possa scrivere. All’inizio quando leggevo le traduzioni mi arrabbiavo. Un’ attore indisciplinato pensavo, però poi ho capito che era giusto. Quindi sono diventati dei veri e propri coautori. È complesso il processo creativo. Il cinema e la regia è questo: il far in modo che accada qualcosa di vero» Puoi commentarmi queste parole? Andò così?

Assolutamente sì, era una cosa che ripeteva sempre e mi sembra ancora attuale, non sappiamo quasi niente, allora ancora meno. Far in modo che accada qualcosa di vero è stata la sua storia cinematografica, non era possibile “guardare” con un occhio esterno, occidentale. Mi ricordo che prima di girare una scena vi era sempre una lunga discussione con gli attori nel cercare il modo più vero per quella azione o per quel dialogo, ci sono stati momenti che non sapevamo se la scena si fosse conclusa o era solo una pausa di recitazione.

Quello dell’immigrazione è un tema sempre attuale, tragico ed epico, che ancora oggi è ben presente nel nostro Paese: quest’anno Matteo Garrone con il suo Io capitano, ha raccontato l’Odissea di due giovani migranti senegalesi nel Mediterraneo. Trovi delle affinità con il tuo film?

Credo di sì, partendo da esigenze diverse. Io capitano racconta l’odissea dei protagonisti in modo epico e poetico, lo sradicamento e la violenza con cui avviene, l’azzeramento di qualsiasi umanità, la crudeltà dell’uomo sull’ uomo, fermandosi un attimo prima dell’approdo.

Lettere dal Sahara inizia con l’approdo drammatico del protagonista a Lampedusa, il suo risalire l’Italia dove trova accoglienza, integrazione e violenza razzista nel contempo. Il protagonista rivolge la sua maggiore critica verso i propri connazionali che incontra, i quali hanno accettato la corruzione di una società malata che li ha resi di nuovo schiavi, facendo sì che perdessero tutti propri valori religiosi e culturali di cui sono portatori. De Seta, Maestro dell’antropologia visiva, che già con i primi documentari aveva avuto scambi con il noto antropologo Diego Carpitella, riesce a porsi dalla parte opposta e a raccontare dal punto di vista del protagonista; una visione marxista e pasoliniana della perdita, scegliendo la via della dignità dell’uomo come soluzione, del riconoscimento del bagaglio di cultura, tradizione, spiritualità a cui noi dobbiamo porre attenzione.

Il film venne presentato a Venezia fuori concorso: partecipasti alla proiezione?

Sì, partecipai, fu presentato, come hai ricordato, fuori concorso come evento speciale. Ci fu una calorosa accoglienza del film sia di pubblico che di critica, e allo stesso tempo ci fu anche la celebrazione del regista, il riconoscimento di tutta la sua carriera e del suo cinema.

Dopo Lettere dal Sahara, ci furono altre possibilità di collaborazione con De Seta?

Con Vittorio ci siamo sentiti e visti nuovamente a Roma, mi scrisse una lettera allegando la sceneggiatura di un corto per la Giornata mondiale dei diritti umani (Human Rights Day) del 2008, indetta dallOnu. Il corto di De Seta, Articolo 23, era ambientato a Pentidattillo paese abbandonato in Calabria, ma per impegni già presi non riuscii a esserci.

Affermava Vittorio De Seta: “Lo sguardo neutrale è una menzogna, specie nel mio lavoro, dove basta spostare la macchina da presa di pochi centimetri, perché tutto cambi”. Per un grande documentarista come lui quindi, sembrerebbe non poterci essere una totale fedeltà alla realtà, poiché essa verrebbe “filtrata” dall’occhio della macchina da presa. Qual è la tua opinione?

Lo sguardo, il punto di vista, è sempre una scelta, un atto “politico” del regista. C’è qualcuno che “guarda” con la sua predisposizione, la sua sensibilità, la sua cultura, che mediano lo sguardo. Credo che De Seta si sia avvicinato a tutto quello che ha raccontato, film o documentari, sempre con il rispetto di chi vuole capire, immedesimandosi con le comunità filmate, mai snaturandole, o con sguardo che fosse funzionale a un giudizio precostituito: in questo modo ci ha restituito un cinema  del reale e del poetico, e come mi diceva spesso “… la poesia è il sale che conserva le cose”.

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